agosto 29, 2010 |
Discariche, lezione tedesca |
Il Fatto quotidiano
Sabato 28 agosto 2010
Discariche, lezione tedesca
di Pierfranco Pellizzetti
La notizia è questa: in Germania il governo prevede di chiudere entro il 2012 tutte le discariche, grazie agli ottimi risultati raggiunti nella raccolta differenziata dei rifiuti. Teutonica efficienza? Certamente sì. Ma anche straordinario esempio di civismo da parte della popolazione tedesca. E pure una non trascurabile lezione per noi italiani, ancora lontani mille miglia da quella meta.
L’assunto del ragionamento seguente è che la gestione dell’igiene urbana – al di là dell’aspetto solo apparentemente secondario dell’argomento – può raccontarci qualcosa di assai importante persino sulla qualità della convivenza; sui valori o i disvalori presenti nel territorio, locale e nazionale. Perché, al di là delle capacità gestionali delle varie public utilities preposte all’azione amministrativa (molto variegata. Ad esempio in alcuni quartieri delle nostre città si sta perfino introducendo il porta-a-porta; situazione ben diversa da altri casi, dove la differenziata è pura e semplice simulazione truffaldina), l’operazione funziona esclusivamente grazie al coinvolgimento attivo dei cittadini. Grazie al diffondersi di una cultura del recupero e del riciclo, ben oltre la semplice eliminazione dalla vista del materiale di scarto; la convinzione interiorizzata e fattasi comportamento quotidiano che la cosa pubblica è “cosa di tutti”, non di qualcun altro. In altre parole, civicness; appunto, spirito civico.
Tra i mille problemi che affliggono il nostro Paese, quello della profonda carenza di civismo non è l’ultimo né il più trascurabile. Storia antica, del resto. Che trova convincenti spiegazioni nel tardivo e singolare processo di unificazione nazionale.
L’aggettivo patrio
Infatti ne conoscete un altro di popolo che usa l’aggettivo patrio per indicare un qualcosa di mal fatto o raffazzonato (“all’italiana”)? Situazione – tuttavia – che negli ultimi decenni è andata gravemente peggiorando. Di certo la politica ha dato il suo robusto contributo: dal dilagare del malcostume nelle pieghe del malaffare, grazie agli esempi diseducativi che ci fornisce quotidianamente il vertice supremo (presieduto da un personaggio come Silvio Berlusconi, che quanto a spirito civico…), all’irresponsabile opera di delegittimazione del sentimento unitario nazionale in cui si sono distinti gli sfasciacarrozze leghisti; alla predicazione presunta liberista tipo Thatcher che “la società non esiste”, tanto cara alle orecchie di una vasta neoborghesia di arrampicatori sociali. Indubbiamente. Però si può scorgere un aspetto ancora più profondo: l’esaurimento delle “grandi epopee” che nel dopoguerra avevano in qualche misura unificato il Paese producendo una sorta di fierezza d’appartenenza, ad oggi del tutto evaporate. Epopee economiche: dal “miracolo economico” trainato dall’investimento pubblico (partecipazioni Statali e politiche infrastrutturali. Ci sarebbe stato il boom della FIAT nella motorizzazione interna senza le realizzazioni autostradali del dopo ricostruzione?) a quella del paradigma distrettuale.
Modelli in via d’estinzione
Dunque, l’esaurimento di modelli che consentivano specializzazioni manifatturiere competitive il cui esito era l’inclusione di crescenti strati della nostra società nella fascia del benessere, trova risposta in una sorta di corsa al “si salvi chi può” a livello individuale: l’ulteriore “botta” al già tiepido civismo nostrano. Spesso per le generazioni più anziane questo si traduce in una sorta di favolistico “ritorno al passato”. Magari il ricordo idealizzato dell’antica solidarietà operaia nei quartieri un tempo industriali delle nostre città o il sogno di remote comunità di villaggio nelle periferie estreme.
Rimembranze volte a ripristinare appartenenza che valgono soltanto nel caso dei più anziani, ma che ormai hanno perduto ogni significato per le generazioni più giovani, a cui la parola “fabbrica” o i quadretti idilliaci di un “verde mondo agreste” (ormai sepolto sotto cumuli di rifiuti) non dicono più nulla; sono iconicamente inerti. Per questo credo abbia ragione Nichi Vendola (se ho capito bene) quando prospetta l’esigenza di “nuove narrazioni”. Così come ritengo che la grande, vera, questione nazionale non sia il Mezzogiorno o il Settentrione padano, come ci viene raccontato con interessata frequenza, quanto – piuttosto – quella giovanile; saldata con il degrado esplosivo di buona parte delle nostre periferie urbane. Perché le ricerche sul campo (chi scrive ne ha testé terminata una sul rapporto rifiuti-civismo. Da qui un certo “accaloramento” sul tema) dimostrano che siamo innanzi all’apocalisse dell’irrinunciabile lubrificante sociale che è la fiducia. Quando, prima o poi, si avvierà la nuova ricostruzione del Paese, dovremo prestare grande attenzione al ripristino di questa sorta di capitale sociale. Che nella microfisica dei gesti quotidiani si traduce anche nel non trasformare le nostre strade in pattumiere di cartacce, deiezioni animali non raccolte e pacchetti di sigarette appallottolati. Il dio dei laici non voglia sia troppo tardi.
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